Legislazione di Federico II
L'attività legislativa di Federico, culminò nel Liber constitutionum Regni Siciliae, detto in seguito “Liber Augustalis”, promulgato a Melfi nel 1231 (comunemente viene indicato appunto come “Costituzioni di Melfi”). Vi lavoravano insigni giuristi, come Pier della Vigna, Roffredo di Benevento, Taddeo di Sessa, e vari prelati, tra cui l'arcivescovo di Capua, Giacomo Amalfitano. Grazie a loro Federico II poté dotare il suo regno di un codice organico di leggi, ispirato a1la tradizione giuridica romana e alla legislazione normanna, nonché a una concezione assai alta dello Stato e della giustizia. Utilizziamo, con qualche adattamento, il testo di G. Galasso, Critica e documenti storici, vol. I Napoli-Firenze, Martano 1972, pp. 437-440.
PROEMIO
Dopo che la divina provvidenza ebbe formato l'ordinato sistema dell'universo e distribuito la materia nel la forma delle cose per realizzare una più perfetta natura, Colui che aveva preconosciuto ciò che doveva essere fatto, considerando quanto aveva creato e apprezzando ciò che considerava, dispose con maturo consiglio di preporre a tutte le altre creature l'uomo, ch'egli aveva formato a propria immagine e somiglianza, come la più degna tra quelle poste sotto la sfera della Luna e che di poco aveva fatto inferiore agli angeli. Trattolo dal limo della terra, lo vivificò nello spirito e, coronatolo col diadema dell'onore e della gloria, gli pose accanto una moglie e compagna, parte dello stesso suo corpo, adornando tutti e due con la forza d'una tanto grande capacità da renderli entrambi in principio immortali. Li pose però sotto una legge, e poiché essi pervicacemente rifiutarono d'osservarla, li condannò alla pena meritata per la loro trasgressione e li privò di quell'immortalità che prima aveva loro concessa. Perché, tuttavia, non avesse a distruggere in tutto, tanto rovinosamente e tanto improvvisamente, ciò che prima aveva formato e perché, una volta distrutta la forma dell'uomo, non ne derivasse di conseguenza la distruzione di quella di tutte le altre creature, venendo loro a mancare il soggetto preposto e la propria funzione, non servendo esse più all'uso dell'uomo, la divina clemenza fecondò col seme d'entrambi la terra di mortali e questa stessa diede loro in potestà. Essi, non ignari della scelta paterna, ma avendo in se stessi propagato il male della disobbedienza, concepirono vicendevoli odî e distinsero il possesso delle cose che per diritto di natura era comune [...].
Così per la stessa necessità naturale, non meno che per ispirazione della provvidenza divina, furono creati i prìncipi secolari, per cuimezzo potesse esser punita la sfrenatezza dei delitti e che, arbitri della vita e della morte dei popoli, stabilissero, come - in certo modo - esecutori dei decreti della provvidenza, quale stato, condizione e posizione dovesse avere ciascuno. Dalle loro mani, affinché possano rendere buon conto dell'amministrazione loro commessa, il re dei re e prìncipe dei principi richiede soprattutto che essi non permettano che la sacrosanta Chiesa, madre della religione cristiana, venga macchiata dalla subdola perfidia dei detrattori della fede; che la difendano dagli attacchi dei pubblici nemici con la potenza della spada materiale; che, infine, per quanto possono, conservino ai popoli la pace e - una volta pacificatili - la giustizia, che, come due sorelle, vicendevolmente si abbracciano.
Noi dunque, che solo la potenza della mano di Dio, al di là d'ogni umana speranza, ha sublimato ai fastigi dell'Impero Romano e alla testa degli altri regni, volendo rendere raddoppiati al Dio vivente i talenti affidatici, per reverenza verso Gesù Cristo - dal quale tutto quanto possediamo abbiamo ricevuto -, osservando la giustizia e stabilendo le leggi vogliamo immolare l'offerta delle nostre labbra, provvedendo in primo luogo a quella parte delle terre sottoposte al nostro dominio, la quale al presente sembra avere il maggior bisogno del nostro intervento circa la giustizia. Pertanto, poiché il regno di Sicilia - preziosa eredità della maestà nostra e che sempre abbiamo trovato pronto e devoto all'ossequio della nostra serenità, nonostante la resistenza di taluni che non facevano neppur parte dell'ovile del regno stesso né dell'impero - sia per la debolezza della nostra età, sia per la nostra assenza, è stato finora lacerato dall'impeto delle passate turbolenze, abbiamo ritenuto degno provvedere con ogni cura alla sua pace e all'osservanza della giustizia. Perciò disponiamo che solo le presenti disposizioni emanate in nostro nome abbiano vigore nel nostro regno di Sicilia, ed ordiniamo che - cassata ogni altra legge e consuetudine in contrasto con queste nostre costituzioni, come ormai superata - esse siano d'ora innanzi da tutti inviolabilmente osservate. Nelle presenti disposizioni abbiamo ordinato che fossero incluse le norme vigenti in precedenza nel regno di Sicilia e quelle da noi promulgate, affinché non abbiano alcun vigore né alcuna autorità, in giudizio e non in giudizio, quelle che non sono comprese nel presente corpodelle nostre costituzioni.
[I,1] DEGLI ERETICI E DEI PATARINI
Gli eretici tentano di lacerare l'inconsutile tunica del Dio nostro, e adeguandosi perfettamente al significato di colpa nella parola. con cui vengono designati, che enuncia il senso della divisione, cercano di rompere 1'unità dell'indivisibile fede e di sottrarre alla custodia di Pietro le pecore che a lui furono affidate dal Buon Pastore perché le pascesse. Questi eretici sono i lupi rapaci e cercano di approfittare della mansuetudine delle pecore per poter penetrare insidiosamente nell'ovile del Signore; sono gli angeli malvagi, sono i figli della pravità destinati dal padre della nequizia e dall'inventore della frode ad ingannare le anime semplici; sono i serpenti che ingannano le colombe, le serpi che strisciano di nascosto e sputano veleno sotto le apparenze di dolce miele, sicché, mentre simulano di somministrare alimento di vita, colpiscono dalla parte della coda mescolando succhi mortiferi di orribili veleni.
Le sette di costoro, per non rivelarsi non si designano con i loro vecchi nomi, ovvero, ciò ch'è più nefando contente come gli Ariani di prender nome da Ario o i Nestoriani da Nestorio, od ognuna da chi è più vicino alla sua dottrina, si chiamano Patarini – cioè pronti al patimento – a modo dei martiri che affrontarono il martirio per la fede cattolica [...]. Contro costoro, che sono così ostili aDio, a se stessi e agli [altri] uomini, non possiamo frenare la nostra ira e non impugnare contro di loro la spada della giusta vendetta; e con tanta maggior perseveranza li perseguiamo in quanto a più aperta offesa della fede cristiana, è noto che essi più largamente che altrove commettono i delitti della loro superstizione proprio vicino alla Chiesa romana, che è considerata il capo di tutte le altre chiese, in modo che dal territorio dell'Italia, e specialmente dalla Lombardia, dove sappiamo con certezza che la loro scelleratezza è più largamente diffusa, le diramazioni della loro perfidia sono giunte sino al nostro regno di Sicilia.
Ritenendo dunque questo fatto estremamente penoso, abbiamo stabilito in primo luogo che il crimine di eresia e di appartenenza a qualsiasi setta, comunque si chiamino i suoi seguaci, sia annoverato tra i delitti contro lo Stato, così come è sancito dalle antiche leggi [...].
E come il reato di alto tradimento contro lo Stato comporta per quanti ne sono stati riconosciuti colpevoli la perdita della personalità e dei beni, e ne condanna dopo la morte anche la memoria, altrettanto vogliamo che consegua per quanto concerne il predetto reato in cui incorrono i Patarini. E affinché la loro nequizia venga scoperta, dal momento che essi, poiché non seguono Dio, camminano nelle tenebre, anche se nessuno li denuncia, vogliamo che coloro che commettono delitti di tal fatta siano diligentemente ricercati ed inquisiti dai nostri funzionari come gli altri delinquenti, e una volta sottoposti al procedimento inquisitorio, anche se siano soltanto lievemente risultati sospetti, ordiniamo che siano esaminati da ecclesiastici e da prelati.
Se questi poi avranno chiaramente appurato che essi si discostano anche soltanto parzialmente dalla fede cattolica, e se, ammoniti pastoralmente, non avranno voluto - lasciate le tenebrose insidie del demonio - riconoscere il Dio della luce e persevereranno nella professione dell'errore concepito, decretiamo con questo editto della nostra legge che i Patarini abbiano la morte che desiderano, cioè che siano bruciati vivi pubblicamente, affidati al supplizio delle fiamme [...].
Nessuno osi intervenire presso di noi in loro favore; e, se qualcuno lo avrà osato, contro di lui dirigeremo giustamente gli strali della nostra indignazione.
[I, 4] NESSUNO SI OCCUPI DELLE AZIONI O DELLE DECISIONI DEL RE
Non bisogna discutere del giudizio, delle decisioni e delle disposizioni del re. Rientra infatti nella fattispecie del reato di lesa maestà discutere dei suoi giudizi, delle sue azioni, delle sue decisioni e delle sue disposizioni e se chi ha scelto e nominato [ad un ufficio] sia degno o no.
[I, 8] OSSERVANZA E CONSERVAZIONE DELLA PACE GENERALE NEL REGNO
L'osservanza della pace, che non può essere disgiunta dalla giustizia, e dalla quale la giustizia non può essere separata, ordiniamo che sia praticata da tutte e da ognuna delle parti del nostro regno, sicché nessuno d'ora innanzi debba vendicare con la propria autorità le offese e i danni ricevuti o che gli dovessero esser arrecati, né esercitare presaglie e rappresaglie né muovere guerra nel regno, ma secondo la regolare procedura giudiziaria porti la sua causa dinanzi al maestro giustiziere e ai giustizieri delle varie regioni o davanti ai camerari [funzionari del fisco con competenze anche nelle controversie legate alle finanze] delle diverse località o ai balivi o ai signori, secondo che ad ognuno di essi compete la cognizione della causa stessa. Se poi accadesse che qualcuno, provocato da offesa violenta, per la tutela della sua persona e dei suoi beni fosse costretto a difendersi, non vietiamo che egli lo faccia immediatamente, prima cioè che trascenda ad azioni di diversa natura o non pertinenti, entro i limiti, tuttavia, della legittima difesa; vale a dire, che si difenda, con armi dello stesso tipo e della stessa efficacia di quelle con le quali fu assalito, cosicché, se è stato attaccato con armi da taglio possa difendersi con armi da taglio [...].
[I, 31] OSSERVANZA DELLA GIUSTIZIA
I Quiriti [Romani], non senza aver prima lungamente pensato e gravemente meditato, con la Legge Regia trasferirono il diritto di legiferare e il potere di governare al principe romano, affinché dalla stessa persona che dal fastigio della fortuna imperiale a lei affidata governava i popoli con la propria autorità e dalla quale procedeva la difesa della giustizia, procedesse anche l'origine della giustizia medesima. È pertanto evidente che, non tanto per utilità, ma per necessità, fu provveduto a che, unendosi nella stessa persona queste due cose: la fonte del diritto e la sua tutela, la forza non fosse separata dalla giustizia né la giustizia dalla forza. L'imperatore deve dunque essere padre e figlio, signore e ministro della giustizia. Egli è padre e signore nel fissare ciò ch'è giusto e nel curare poi l'osservanza di quanto ha fissato; e parimenti è figlio nell'onorare la giustizia e ministro nell'amministrarla.
Ammaestrati pertanto da questa ponderata considerazione, noi, che dalla mano di Dio abbiamo ricevuto lo scettro dell'Impero e il governo del Regno di Sicilia, annunciamo le decisioni della nostra sovrana volontà a tutti i nostri fedeli del regno predetto: e cioè che ci sta a cuore di amministrare tra loro - a tutti ed ognuno, senza eccezione alcuna di persone - la giustizia con pronto zelo, in modo che essi possano ovunque largamente ottenerla dai nostri ufficiali cui ne abbiamo affidato l'amministrazione.
Ordiniamo che le loro competenze siano distinte e ne preponiamo alcuni alle cause civili, altri ai procedimenti penali.
[I, 49] NESSUN PRELATO, CONTE O BARONE ESERCITI L'UFFICIO DI GIUSTIZIERE
Vogliamo che nessuno usurpi con illegittima presunzione ciò che spetta allo specifico onore e alla piena sovranità della nostra altezza. Con questo editto della nostra pia maestà, che avrà perpetua validità, proibiamo pertanto assolutamente ai prelati, ai conti, ai baroni e ai militi e alle locali università di esercitare o di conferire nelle proprie terre ad alcuno perché lo eserciti l'ufficio di giustiziere, e ordiniamo che ci si rivolga invece al maestro giustiziere ed ai giustizieri da noi nominati. Coloro che agiscano contro la presente nostra proibizione e che nominino o che si facciano nominare giustizieri, condanniamo alla confisca delle loro terre.
[I, 50] PENE PER LE UNIVERSITÀ CHE CREINO PODESTÀ O ALTRI UFFICIALI
Poiché gli ufficiali da noi nominati affinché ognuno possa avere giustizia nelle cause sia civili che penali sono del tutto sufficienti, cassando l'illecita usurpazione verificatasi in alcune parti del nostro regno, ordiniamo che d'ora innanzi i podestà, i consoli o i rettori non siano nominati da nessun potere locale, e che nessuno, in forza di qualche consuetudine o per conferimento del popolo, usurpi per sé alcun ufficio o giurisdizione; e ordiniamo che in tutti i luoghi del regno vi siano ufficiali nominati soltanto dalla nostra maestà o per nostra delega: cioè maestri giustizieri, giustizieri, camerari, balivi e giudici, e che essi curino i nostri diritti e quelli dei nostri fedeli. Pertanto, qualunque università d'ora innanzi avrà nominato tali funzionari, sia condannata alla perpetua distruzione e tutti gli uomini suoi siano servi in perpetuo. Chiunque poi avrà tratto un qualche lucro dall'esercizio degli uffici sopra menzionati, stabiliamo che sia punito con la pena capitale.
[II, 33] IN QUALI CASI POSSA PRATICARSI IL DUELLO
Vogliamo che per sempre tra i sudditi del regno sottoposti alla nostra giurisdizione non abbia luogo, eccetto che in pochi casi, la monomachia, che comunemente è detta duello, la quale non costituisce tanto una vera e propria prova, quanto piuttosto una specie di divinazione, che non è consona al diritto naturale, devìa dal diritto comune e non risponde alle ragioni dell'equità [...]. Da questa umanitaria sanzione escludiamo gli omicidi che vengano accusati di aver ucciso qualcuno con veleno o con qualunque genere di morte a tradimento. Anche in questi casi però non permettiamo che si cominci con la prova del duello, ma ordiniamo che si proceda dapprima con l'esame delle prove ordinarie, se ve ne sono, e che infine, dopo che sia stata svolta dagli uffici competenti della curia un'accurata indagine, se con essa non si potrà provare il delitto, solo allora si passi alla prova del duello.
Tutto ciò dovrà essere appurato dalla competenza di un giudice esperto nella cognizione delle cause, che oculatamente e diligentemente vagli le prove addotte in seguito alla inchiesta. Qualora egli non abbia trovato elementi di prova, come sì è detto, dovrà concedere all'accusatore il permesso di proporre il duello, senza per questo recar pregiudizio al suo diritto per il fatto di aver agito nell'esercizio della sua funzione di giudice. Se tuttavia l'accusatore si offra prima di provare l'accusa per mezzo di testimoni e i suoi argomenti di prova per loro mezzo si sono rivelati inidonei, allora, poiché la prova col duello non ha alcun valore, il reo che non è stato convinto (e che viene quindi presunto innocente) sia assolto [...].
Facciamo eccezione anche per il delitto di lesa maestà, al quale [...] riserviamo il giudizio per mezzo del duello. Né deve recar meraviglia se sottoponiamo al duello i rei di lesa maestà, i rei di uccisione a tradimento e gli avvelenatori: non perché la nostra serenità ritenga giusto nei loro confronti ciò che considera ingiusto nei confronti degli altri, ma perché (a loro castigo e ad esempio per gli altri) intendiamo sottoporre pubblicamente gli omicidi - i quali non hanno avuto alcun timore di tendere insidie alla vita degli uomini, che la divina potenza sola può creare - a questa tremenda specie di prova. Coloro infatti che tramano qualcosa contro la nostra sicurezza, che garantisce la sicurezza di tutti gli altri, poniamo al di fuori di ogni procedimento conforme alle leggi.
[III, 46] DIRITTO DI SUCCESSIONE DEI FIGLI DEI CONTI E DEI BARONI
In alcune parti del nostro regno abbiamo saputo che vige tuttora la prava consuetudine secondo la quale nei beni del conte, del barone o del milite, morti senza lasciare figli maschi, le figlie non hanno successione, ma i consanguinei (per quanto remoti essi siano) di sesso maschile, ricevono, dopo la morte del padre, la tutela delle stesse pupille, ne usurpano ad un tempo la successione e le maritano a loro discrezione. Ciò è contrario al diritto naturale, che affida alla volontà dei genitori i maschi e le femmine senza distinzione dì sesso, e deroga sia al diritto comune che a quello particolare [del regno]. Pertanto, con la presente legge, valevole in tutte e in ciascuna delle parti del nostro regno, stabiliamo che alla morte del padre siano chiamati alla di lui successione sia i figli che le figlie, maggiorenni o minorenni che siano, senza alcuna distinzione di sesso.
Qualora al padre defunto sopravvivano figli maschi e femmine o sorelle, di qualsiasi condizione sia egli stato, franco o longobardo, milite o borghese, stabiliamo che nella successione nei beni abbiano la preferenza i maschi sulle femmine, con l'obbligo per i fratelli o nipoti di maritare convenientemente alle loro disponibilità e al numero dei figli viventi, secondo la loro condizione, le sorelle o le zie per parte di padre. Qualora al padre sopravvivano soltanto figlie, ordiniamo che esse, purché maggiorenni, siano ammesse alla successione, escludendo gli altri consanguinei; e che, se invece sopravvivano al padre figlie minorenni di conti, di baroni o di militi, la loro tutela sia affidata alla nostra eccellenza, che la eserciterà direttamente, ovvero la concederà ad altri che onestamente la esercitino secondo la consuetudine stabilita nel regno. Quando poi esse saranno pervenute all'età da marito e saranno uscite dalla nostra o dall'altrui tutela avendo compiuto il quindicesimo anno, con provvida amorevolezza e avendo sempre Dio innanzi agli occhi della nostra mente, cureremo di maritarle con tutti i beni paterni, secondo la loro condizione.
[III, 33] PROIBIZIONE DI COSTRUIRE FORTEZZE IN TERRA DEMANIALE
Proibiamo di erigere d'ora innanzi in località appartenenti al nostro demanio edifici dai quali possa essere impedita la difesa delle medesime, la protezione dei sudditi e il libero transito.
Nei predetti luoghi, in particolare, vietiamo che d'ora innanzi siano da privati cittadini edificate torri. Riteniamo infatti che a tutti i fedeli sudditi del nostro regno siano sufficienti per tutelarli le opere fatte da noi costruire e, ancor più, la certezza della nostra protezione.